Ferdinando Maria Poggioli sul set
di Marcello Seregni, uscita > Catalogo Premio Sergio Amidei, luglio 2012.
“…di quegli autori che poi abbiamo chiamato calligrafici…”
L’ambiente culturale, politico e sociale sviluppatosi nel dopoguerra non ha permesso una rivisitazione del cinema del decennio precedente ma anzi ne ha occultato la visione e l’analisi di valori che, come già scrisse Mino Argentieri all’inizio degli anni sessanta, “forse oggi siamo in grado di cogliere con maggiore serenità e distacco, mediante un procedimento di verifica”. Lo sviluppo e l’esplosione del neorealismo, sentita come una ventata di aria fresca dopo il periodo bellico, misero sopra la produzione calligrafica una sorta di velo. Tutto ciò ha significato per alcuni decenni la semplice “dimenticanza” di un periodo storico e di una produzione cinematografica tornati nel dibattito degli studi sul cinema grazie ai fondamentali incontri del Nuovo Cinema di Pesaro (anni ’74,’75,’76) e alle sue relative pubblicazioni.
La scoperta (o riscoperta) del paesaggio, la mirabile scrittura con partecipazioni alle sceneggiature del nostro Sergio Amidei, di Vitaliano Brancati, Umberto Barbaro, Francesco Pasinetti, Giacomo Debenedetti, Emilio Cecchi, Ennio Flaiano, Alberto Moravia, lo stile per nulla scontato e di ricerca, ad esempio con l’uscita dagli studi cinematografici e l’allontanamento dall’uso degli interni che invece caratterizzavano molta produzione dell’epoca, rendono i titoli dei calligrafici esempi di una cinematografia più alta, che non faceva dell’antifascismo, così come del fascismo, la sua cifra culturale e stilistica, ma tentava di ispezionare altrove, proprio nella ricerca della qualità, e se vogliamo della “forma”, il linguaggio cinematografico. Questo utilizzo del cinematografo era, dice Lattuada, “il rifiuto di usare questa meravigliosa arma così forte (l’«arma più forte» disse Mussolini) per la propaganda; da qui il bisogno di rifugiarsi nei canoni letterari e nei temi che non illustrassero in nessun modo quello che poteva essere l’ingigantimento del movimento fascista”.
Ma chi sono i Calligrafici? Una definizione netta e precisa è inverosimile proporla poiché i Calligrafici, o Formalisti, non si consideravano una corrente della cinematografia italiana ma erano stati definiti tali, almeno per quanto riguarda gli aspetti estetici e “formali”, dal gruppo di giovani critici e futuri cineasti della rivista Cinema (Lizzani, Puccini e De Santis principalmente) che derubricavano le opere di alcuni registi ad un formalismo letterario trasposto in una cinematografia distante sia dalla realtà quotidiana della popolazione italiana che da una rinascita del cinema nazionale continuamente chiamata e voluta, ma non ancora definita e trasposta in opere filmiche (gli scritti apparsi su Cinema negli anni che vanno dal 1938 al 1942 faranno da preludio e base riconosciuta per il cambiamento cinematografico avviato da Ossesione di Visconti). Proprio Lizzani annunciava e definiva, in uno dei suoi più famosi articoli sulla rivista, la questione formalista:
C’è in esso [nel Formalismo] tutto il disprezzo (non confessato naturalmente, ma non meno reale) per «l’accaduto umano», c’è il rifiuto, in una tale tendenza, per tutto ciò che ha sapore di realtà, per tutto ciò che è il «moderno» in ogni tempo: l’attuale, il reale, l’uomo nella sua vicenda giornaliera.
Tuttavia, la citazione di in esergo alla nostra introduzione (estrapolata da un’intervista all’altro grande critico del formalismo, De Santis), ci dà il pretesto per effettuare alcune considerazioni sull’opera dei cosiddetti calligrafici. Le parole di De Santis evidenziano almeno due fattori: innanzitutto il riconoscimento della figura di autore, non scontato, ad indicare la forte stima che si rivestiva in quei registi (Poggioli, Camerini, Lattuada, Chiarini ed altri) che erano innanzitutto intellettuali e uomini di cultura ma che, a detta dei critici di Cinema, non riuscivano a trasporre nel cinematografo quelle tematiche e caratteristiche per cui erano considerati tali, ovvero l’aderenza alla quotidianità della vita (“Prendi Soldati: noi come giovani avevamo molto amato questo suo libro America, primo amore. Soldati lo amavamo molto come letterato”), la realtà ripresa anche nella sua forma cruda (“L’occhio quadrato [di Lattuada], con una serie di fotografie tutte prese dalla realtà milanese, lombarda”). Secondariamente, come il cappello calato sulla testa dei nostri autori, sia frutto più di un discorso metodologico della critica che qualcosa di riconosciuto e cosciente. Soldati, Castellani, Poggioli e gli altri è vero che collaborassero insieme, ma nessuno di loro ha mai parlato o si è mai ritrovato sotto una definizione o un movimento di questo genere. Mario Soldati lo chiarisce esemplarmente quando dice che “in quel periodo tutti quelli che non erano «comunisti» erano «calligrafici». Io mi sentivo antifascista ma non ero comunista. Mi chiamavano «calligrafico» per questo, ma è un malinteso. E poi non c’era nessun gruppo…”. Il cinema in quegli anni era fatto da pochi nomi e le produzioni, negli anni della guerra, si facevano via via più sporadiche e difficili: era dunque nella normalità delle cose che chi facesse cinema si aiutasse e si scambiasse le idee. Appare invece più probabile come l’estrazione sociale e la cultura abbiano dato campo fertile alla ricerca (e financo alla nostalgia) per una bella immagine e una bella letteratura, quasi a voler imporre, a scudo e a protezione da quegli anni bui, un esempio di morale e di bellezza.
Queste critiche e l’arrivo nel dopoguerra di un periodo e una stagione “fervida di speranze, di conquiste e di illusioni, ma anche di verità mentite e di menzogne date come verità”, che si dedica alla “Liberazione dell’Uomo e dunque, nel cinema, per un cinema utile all’uomo”, saranno le cause principali del silenzio sul cinema italiano degli anni trenta, incapace di rappresentare, con il cinema dei telefoni bianchi e le commedie ungheresi, il momento storico che il Paese stava attraversando, e soprattutto sul cinema dei cosiddetti calligrafici, colpevoli di non avviare quelle novità cinematografiche attese ed occuparsi di inscenare storie borghesi del secolo passato che nulla avevano a che fare col contesto di quegli anni.
Eppure mirabili esempi, nel cinema di quegli anni, non si faticano a trovare. Lattuada, intellettuale, tra i fondatori della Cineteca Italiana di Milano, si dedica alla sua prima regia (dopo aver fatto l’aiuto regista per Soldati e Poggioli) nel 1943 con Giacomo l’idealista, dove i sorprendenti esterni sui paesaggi lombardi dell’Adda e delle montagne, sono attraversati da una storia in bilico fra classi sociali ed erotismo. Oppure l’incredibile forza cinematografica rinvenibile nella sua seconda regia, La freccia nel fianco, nella scena che vale tutto il film: nel teatro della villa uno dei protagonisti si interroga – e ci interroga – sulla finzione e la realtà, sulla vita e sulla morte.
Soldati, scrittore e uomo di cultura, è l’autore di uno dei grandi successi del cinema italiano anni trenta, tratto da un romanzo di Fogazzaro, quel Piccolo mondo antico (1941) che gli darà la fama da regista. Anche se è, probabilmente, con Malombra (1942), sempre tratto da Fogazzaro, che raggiunge il suo apice cinematografico attraverso l’accurata scenografia delle riprese in interno o lo slancio visivo dei paesaggi lariani dove tutto sembra nascere e morire.
In Chiarini, contrariamente a Soldati e Lattuada, assistiamo all’elaborazione filmica di un paesaggio “interno”. Il chiuso dei teatri di posa, dove i personaggi vagano e interagiscono, permette di focalizzare meglio l’attenzione sopra le vicende dei personaggi, indagando meglio quello che nelle loro viscere, nel loro “interno” si annida. Così ne La bella addormentata seguiamo la vicenda di Carmela, una bravissima Luisa Ferida, nel suo lento e inesorabile spegnimento.
È sotto la chiave del simbolismo che possiamo probabilmente interpretare quell’indirizzo di Resistenza che i Calligrafici tentavano di mostrare. Resta famosa la battuta antiaustriaca (e quindi contro l’Asse e la Germania) inserita in Piccolo Mondo Antico e non censurata dalla Commissione perché di Fogazzaro. Oppure come quando Lattuada chiarisce che “In Giacomo l’idealista io ho battuto un tasto che mi sta molto a cuore, ovverosia l’ipocrisia cattolica; […] la storia mi offriva l’occasione di assistere al destino molto triste di una ragazza che, essendo stata messa incinta da un signorino, un rappresentante della ricca borghesia, veniva sequestrata e nascosta da due beghine. Da lì lei fuggiva come da una prigione; insomma a un certo punto si ribellava, pur essendo una bambina sprovveduta. C’era, appunto, questa situazione un po’ simbolica: quella del voler fuggire e soprattutto del voler ribellarsi. […] c’era insomma come un cripto anti-fascismo che aveva il suo valore”.
Il cinema dei “cosidetti Calligrafici” è dunque l’espressione di un cinema continuamente alla ricerca di un linguaggio, che qualcuno ha definito della dissimulazione, di un’estetica della forma che, magicamente ed anche semplicemente, si tramuta agli occhi dello spettatore come la presa d’atto di uno stile e, primariamente, di una coscienza morale ed intellettuale.
Testi citati
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema mondiale: L’Europa. Le cinematografie nazionali, vol. III, Einaudi, Torino, 2000.
Carlo Lizzani, Pericoli del nuovo cinema italiano. Il Formalismo, in Cinema n. 153, 10 novembre 1942, p. 637.
Andrea Martini, a cura di, La bella forma. Poggioli, i calligrafici e dintorni, Saggi Marsilio, Venezia.
Riccardo Redi, a cura di, Cinema italiano sotto il fascismo, Marsilio, Venezia 1979.
Giorgio Tinazzi, a cura di, Il cinema italiano dal fascismo all’antifascismo, Marsilio, Venezia, 1966.
Vito Zagarrio, Cinema e fascismo. Film, modelli, immaginari, Saggi Marsilio, Venezia, 2004.